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Dalla memoria al memoriale

Di Damiano Pomi
Un grande dono di grazia è quello di poter celebrare questo quinto centenario del Santo Miracolo, come comunemente viene chiamata dai fedeli cannobiesi la prodigiosa effusione di sangue e della Sacra Costa dal quadretto della Santa Pietà. Dopo aver rievocato i fatti storici, giuridicamente documentati, avvenuti nel lontano inverno del 1522, è opportuno compiere anche un breve percorso spirituale che permetta di passare dalla memoria, ossia il doveroso ricordo di quanto accaduto allora, al memoriale, ossia un’esperienza che riguardi anche la nostra vita, a distanza di mezzo millennio dai fatti. Troppo spesso, infatti, per tanti avvenimenti anche miracolosi non si effettua questo passaggio, soffermandosi soltanto alla memoria dell’accaduto che, seppur fondamentale, da sola non è sufficiente per cogliere il valore spirituale intrinseco agli eventi stessi.
Soffermandosi davanti al piccolo quadro non si può che restare stupiti per la gratuità del prodigio, che richiama a quella ancor più grande della redenzione operata da Cristo. È accaduto nel borgo antico di Cannobio che, per quanto oggi sia una rinomata località turistica, allora era un posto qualunque; il miracolo è successo in una casa qualunque, in un giorno qualunque, davanti a persone qualunque. Tutto questo può forse sorprendere ma è il modo di agire di Dio; il mistero più grande, ossia quello dell’Incarnazione, da cui dipende tutta la storia della salvezza, è avvenuto proprio così.
Nazareth, dove tutto è iniziato, era un paese qualunque, la casa di Maria un’abitazione qualunque, Maria stessa era una ragazza qualunque − straordinaria solo agli occhi di Dio e di Giuseppe che ne era il fidanzato − il giorno dell’Annunciazione era una giornata qualunque. Il miracolo di Cannobio non è avvenuto a causa di fattori esterni, come ad esempio quello non lontano di Re, causato da un gesto sacrilego rivolto contro un’immagine della Madonna, o come successo per tanti miracoli eucaristici, da quello di Lanciano a quello di Bolsena – per citare i più conosciuti – realizzatisi a motivo dell’incredulità del celebrante o in seguito a profanazioni delle specie consacrate.
A Cannobio il divino si è manifestato gratuitamente e spontaneamente e, per questo, ancor più in modo sorprendente.
Sono tre gli elementi che costituiscono l’avvenimento miracoloso: il sangue, fuoriuscito dalle ferite delle piaghe di Cristo, la Sacra Costa, emessa dal suo
costato, le lacrime, sgorgate dagli occhi di Maria e di Giovanni. Non si tratta di simboli ma di segni; non è questa solo una differenza terminologica, o una sottigliezza teologica. Il simbolo rimanda a qualche cosa di oltre ma non implica, necessariamente, una conseguenza o un contatto immediato con la mia vita; il segno, al contrario, parla e in certo qual modo agisce – o dovrebbe agire – sulla mia esperienza. Cosa ci dicono dunque questi segni che, seppur muti – non si tratta infatti di un’apparizione in cui Cristo, la Vergine o il santo parlano – sono fortemente eloquenti? Il sangue, ben visibile sui panni conservati sotto l’altare in santuario, dice che Gesù è vivo. Tutta la tradizione biblica vede nel sangue il segno della vita; nella Bibbia quando si parla di sangue si parla di vita. Nel libro del Levitico si legge: «La vita di una creatura risiede nel suo sangue» (Lv 17,11). Tutti i miracoli che riguardano il sangue, da quello già ricordato di Re, fino a quello, certamente più famoso del sangue di San Gennaro, dicono che Cristo, Maria, o i santi sono vivi oltre la morte e nonostante la morte, partecipi, nella dimensione ultraterrena, della vita stessa di Dio.
La Sacra Costa, oggetto di grande venerazione, dice che non solo Cristo è vivo ma si è anche donato a noi, si è offerto per noi nella sua carne. Questo dono non è avvenuto soltanto il Venerdì Santo al Calvario, o nel prodigio della sera del 9 gennaio 1522, ma si ripete ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, sua reale presenza nel corpo e sangue, che rinnova − qui ed ora − il suo sacrificio salvifico. La partecipazione al banchetto eucaristico è quindi il momento e il luogo in cui incontrare realmente Cristo, come se fossimo presenti a Gerusalemme nell’ora della sua morte, o in casa Zaccheo in quella della miracolosa effusione.
È bello evidenziare un legame tra il luogo in cui il fatto è successo e un’altra stanza al piano superiore; qui a Cannobio abbiamo quasi un nuovo Cenacolo: luogo dell’Ultima Cena, dell’Eucaristia istituita – non si dimentichi la grande valenza anche eucaristica del miracolo – ma anche luogo in cui, come raccontato da Giovanni, in quella che era pensata come la conclusione del suo vangelo (Gv 20), Gesù Risorto offre alla ricerca dell’apostolo Tommaso il suo costato trafitto.
Le lacrime, sgorgate dagli occhi di Maria e di Giovanni, parlano della partecipazione della Madre e del Discepolo amato al dolore e alle sofferenze di Gesù. In loro siamo rappresentati tutti noi: nella Vergine come comunità e come Chiesa, nell’apostolo come singoli membri del corpo mistico di Cristo. Maria è per noi modello nella fede, Giovanni anche nell’esperienza di amore che dovrebbe legarci al Redentore; le loro lacrime dovrebbero sollecitarci ad essere presenti accanto alle croci che contrassegnano la storia. Anche noi, come la Madre e l’Apostolo, siamo invitati a gioire con chi gioisce a soffrire con chi soffre, ad essere presenze discrete e silenziose, ma reali, ai piedi di ogni croce che incontriamo sul nostro cammino. Guardando all’icona
della Santa Pietà, possiamo essere accanto ai fratelli pur senza proferire parola, pur piangendo, realizzando però quella comunione di amore che Cristo ha lasciato come testamento per tutti i suoi discepoli.
Molte altre sollecitazioni possono giungere dalla contemplazione del Santo Miracolo ma queste sono, forse, le più importanti perché il percorso dalla memoria al memoriale ci possa aiutare a ricordare che noi non siamo soltanto seguaci di un Dio per noi − tipica concezione paganeggiante della divinità − ma abbiamo un Dio con noi, che si rivela nel Verbo che si fa Carne. Solo sperimentando questa presenza nella nostra vita, dopo il mistero di sofferenza e morte che un giorno riguarderà ognuno di noi, potremmo fare il passaggio della Pasqua − già prefigurato nell’immagine della Pietà in cui Gesù emerge dal sepolcro − per essere Noi con Dio… per l’eternità.
Editoriale

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