Primavera Missionaria News. Dal 1953 la voce di San Gaspare nel mondo

Fratel Giosafat Petrocchi

Da Giandomenico Piepoli

Nacque in Sant’Elpidio-Morico, oggi frazione del comune di Monsampietro Morico, della provincia di Fermo nelle Marche.

Entrò in Congregazione all’età di settant’anni.

Questo certamente ci farà meraviglia: però abbiamo già conosciuto pian piano come è nata la famiglia di san Gaspare.

Nello svolgersi degli avvenimenti – scriveva don Enrico Rizzoli – essa si adattava alle circostanze dei tempi grazie a uomini disponibili a mettersi al lavoro nelle opere della vigna.

Nella Congregazione essi ebbero modo di convertirsi e santificarsi, osservando la Regola, per elevarsi nell’amore di Dio, nella contemplazione del mistero del Sangue prezioso del Figlio e propagarne la luce, secondo la parabola evangelica.

A noi metterci con preghiera a tenere viva la loro memoria, di uomini di ottima fama e di insigne virtù, uomini di fede, le cui opere giuste non sono dimenticate.

Accanto ai “Missionari”, sacerdoti ministri della parola e dei sacramenti, il Canonico del Bufalo, come si usava in altre famiglie religiose, accoglieva i “Fratelli Inservienti”. In seguito questi saranno chiamati “Fratelli Coadiutori”, “Fratelli Laici”, oppure semplicemente “Fratelli”, con una propria identità nell’apostolato e nella vita della Congregazione.

Questo si evidenzia nello sviluppo che la Regola ha avuto negli anni. San Gaspare promosse sin dagli inizi la presenza e specificò le mansioni dei “Fratelli Inservienti”, al fianco dei “Missionari”, per il servizio nelle Case di Missione, dove tutti dovevano condurre un metodo di vita comune.

Stabilì per essi il Regolamento; ne curava con attenzione l’ammissione e l’andamento spirituale e non lasciava di incoraggiarli negli impegni di comunità, secondo quanto leggiamo ad esempio nelle lettere Circolari per gli Esercizi Spirituali.

Le cronache riferiscono che spesso avvenne che questi Fratelli furono capaci di conversioni col loro devoto contegno o con semplici parole di pietà e carità. Uno di questi, e dei più illustri, fu Giosafat Petrocchi. Don Gaspare lo conobbe a prima vista, lo vide adatto al bisogno e lo accolse immediatamente nella Casa di San Felice di Giano.

Aveva condotto una vita da santo e approdava ora in una casa di perfezione cristiana.

Per la grande umanità e bontà e per la passione per gli altri, che apprese dal Vangelo, fu ricordato da tutti come il santo Fratello Giosafat.

Venne al mondo il 23 settembre 1745, in un’ottima e agiata famiglia. Dalle scarne notizie tramandate, si apprende che aveva condotto una tranquilla vita familiare, ricca di fede e di straordinaria pietà.

Fu sposato ed ebbe figli i quali lo hanno ricordato sempre con venerazione per le qualità e gli esempi trasmessi. Uomo di un’innocenza singolare, d’una grande umiltà e semplicità, praticò una viva carità per i bisognosi e per condurre anime a Dio. Si rese veramente gradito a Dio: a Lui offrì la sua vita nell’amore ai fratelli e nella fedeltà al Vangelo.

Dall’alto della sua casa sul colle di Sant’Elpidio sostava ad ammirare la Santa Casa di Loreto.

Fu devotissimo alla Vergine e alla santa Famiglia di Nazaret, dove si realizzò il piano salvifico di Dio.

Il Signore non mancò di arricchirlo di doni speciali facendolo veramente apostolo per infondere grazia nelle anime.

Cresciuti i figli con una buona educazione e una vita esemplare, avviandoli sulla strada delle più belle virtù e perduta la moglie, vide che la sua presenza non era più necessaria alla famiglia. Illuminato dalla preghiera, ebbe l’idea di lasciare la sua terra e di stabilirsi pellegrino in Umbria.

Scelse di vivere al servizio della gente, bussare alle famiglie per ravvivarvi la pietà ed il timore di Dio.

Leggendo con amore il Vangelo aveva capito che Gesù era venuto verso di noi, aveva vissuto tutto per noi e noi cristiani dobbiamo fare altrettanto, cioè vivere per gli altri.

L’esempio di Gesù ci indica la volontà del Padre, cosa fare nella nostra vita.

Giosafat ha scoperto che non dobbiamo solo dire “Signore, Signore”, ma fare di più, essere cristiani di nome e di fatto, portare il rapporto con Dio nella concretezza della vita, nella dimensione fraterna, attraverso gesti concreti.

Oggi la parola chiave di Papa Francesco è “uscire”, andare incontro: ciascuno deve individuare la propria strada per non rimanere allo stesso punto, soddisfatto di quanto ha fatto, in un vago sentimentalismo di una propria esperienza religiosa.

Dalla vita di famiglia Giosafat è uscito per andare fuori incontro agli altri e portare quanto ricevuto dal Signore.

Una santa missione lo condusse a vivere povero; conosceva abbastanza la professione di sarto e poté guadagnarsi da mangiare. Si presentava alle famiglie prestandosi alle diverse necessità.

Si legge che il suo volto soave, i suoi modi cortesi, la dolcezza della parola, la compostezza degli sguardi e della persona erano altrettante lettere di raccomandazione perché fosse accettato e che tutti si facessero attorno al tavolo del suo lavoro per intrattenersi con lui.

Egli allora con bel modo cominciava al mattino ad invitare donne e fanciulli a dire con lui le orazioni al Signore per ringraziarlo della buona notte concessa, ed implorare un giorno felice.

Nel corso della giornata raccontava delle vite dei Santi, del Signore e di Maria Santissima, con edificanti riflessioni ed esortazioni per una vita migliore.

Le orazioni della sera terminavano la giornata.

Queste semplici azioni portarono frutti meravigliosi, tanti lontani ritornarono al Signore, dei giovani ebbero il desiderio della vita religiosa.

Giosafat si rese mandato, apostolo per il suo prossimo, mediatore di dolcezza e misericordia divina, di cui alimentò il suo cuore.

Quando nell’agosto del 1815 i primi Missionari giunsero a San Felice di Giano, vennero accolti al suono delle campane, con tanta gente in festa e con grande gioia. Un devoto triduo preparò la celebrazione dell’Assunzione di Maria e il canto del Te Deum. «Quel giorno si riguardò come natalizio dell’Istituto», dice don Giovanni Merlini nella «Deposizione» (pag. 151).

I Missionari furono pieni di gioia e grati al Signore ravvivarono la speranza di nuovi operai.

Le sante Missioni, infatti, oltre a portar frutto ai fedeli, consolidavano la stessa Opera e avrebbero anche risvegliato in altri ecclesiastici un santo desiderio di unirsi ad essa.

La notizia dei nuovi Missionari giunti nell’antico cenobio di San Felice illuminò l’umile missione di Giosafat. A loro subito si presentò dando la piena disponibilità.

Era già al settantesimo anno di età! Avendone sentito la fama, don Gaspare lo accolse volentieri nella giovane Opera.

Giosafat entra nella vigna all’ultima ora della vita, ma non teme il ritardo per le opere di amore compiute.

Le memorie della Casa di Giano che ha lasciato don Giovanni Merlini, e di altri che lo conobbero, raccontano di grandi virtù raggiunte in riconoscenza all’amore di Dio.

Dalla preghiera nascosta presso la tomba del martire san Felice fu sempre pronto per ogni necessità, anche a questuare per le campagne, custodire la chiesa, visitare le famiglie nei dintorni, consigliare i giovani ed ebbe a cuore pure guidare e formare alla santità i suoi compagni Inservienti.

“Il buon Giosafat” – scrive don Giovanni Merlini – “soffrì pure moltissimo per parte di alcuno dei nostri.

Egli però sempre paziente di spirito tollerò con ammirabile ilarità i cattivi trattamenti che gli erano fatti, senza mai portarne lagnanze ai superiori.

Soffrì pure non poco per parte del maligno nemico.

Dicono che gli apparisse sotto varie forme e spettri, e talvolta ancora ne fosse percosso.

Sfuggiva però quanto gli era possibile le interrogazioni in proposito, e copriva come meglio poteva i suoi patimenti.

Sentendo il popolo di Giano e di Castagnola la morte del buon vecchio, lo piansero come di un santo che avevano perduto”.

Appressandosi l’ora della morte, sentì ancora il maligno che tentava di sbarrare il passo e spogliare l’anima della sua bellezza.

Lo respinse con tranquillità affidandosi al Sangue di Gesù e alla Vergine Madre.

Chiese e ricevette i Sacramenti e spirò pregando il 20 dicembre 1823, otto anni dopo il suo ingresso in Congregazione.

Riprendiamo, a conclusione, alcune notizie rilasciate dal Direttore Generale don Enrico Rizzoli, in Brevi cenni sulla vita e le virtù di alcuni membri della Congregazione del Prezioso Sangue, Frosinone 1880, pp. 29-32.

Don Vincenzo Maria De Nicola − del quale abbiamo già parlato − non sopravvisse che diciotto mesi alla morte di Fratel Giosafat e sin dal suo arrivo a San Felice domestici e gente del luogo gli avevano parlato tanto della sua santità.

Leggiamo che ne visitava spesso la tomba e l’invocava come un suo protettore studiando di emularne le virtù.

Quando spirò, il 23 maggio 1825, la salma, accompagnata da numerosi fedeli e gente dei dintorni, fu portata nella chiesa di San Felice per il funerale e poi collocata nella sepoltura sopra il corpo del fratel Giosafat.

La fama dei due Confratelli andò sempre più crescendo in quelle terre e tra la popolazione si raccontava di grazie avvenute per loro intercessione.

Il Missionario don Camillo Rossi (1794-1878), che aveva ammirato la loro santità, ebbe il pensiero di esaminare una notte insieme ad un fratello laico lo stato delle salme e con sorpresa le trovò ambedue incorrotte.

Datane notizia ai Superiori, don Pietro De Victoriis, allora Presidente di quella casa di Missione, fattane relazione all’Arcivescovo di Spoleto Mons.

Giovanni Mastai (Pio IX), supplicò che volesse avviarne una legale ricognizione.

L’Arcivescovo delegò il Vicario Foraneo e Preposto della Collegiata di Monte Falco don Loreto Loreti, il quale col Cancelliere della Curia Arcivescovile, il Medico ed i necessari testimoni eseguì l’incombenza il 10 marzo 1830.

I testimoni confermarono in primo luogo la fama di santità dei due Missionari defunti ed in secondo luogo riconobbero l’identità delle salme rilevandone lo stato di conservazione, quasi fossero morti in quel momento.

Il medico dott. Romagnoli, con sua straordinaria sorpresa, trovò come s’erano conservate in stato d’incorruzione, e come la massima parte delle membra era ancora molle e flessibile.

Vennero quindi rivestite di abiti nuovi e collocate in bare separate, introducendovi un tubo di piombo contenente note biografiche.

Le bare furono chiuse col sigillo dell’Arcivescovo e collocate in una seconda bara, e quindi interrate in luoghi distinti all’interno della cripta della chiesa di San Felice.

Gli atti relativi alla ricognizione si conservano nella Curia Arcivescovile di Spoleto.

Leggiamo, inoltre, nel bollettino interno della Provincia di una successiva ricognizione.

«Nel pomeriggio del 25 ottobre 1958 l’Ecc.mo Mons. Mario Raffaele Radossi, Arcivescovo di Spoleto, ha compiuto la ricognizione canonica delle salme del Miss. D. Vincenzo De Nicola e del Fr. Giosafat Petrocchi, morti in concetto di santità.

[…] I resti dei due illustri Membri dell’Istituto sono stati deposti nel nuovo sepolcro ricavato sotto la scalea che sale al presbiterio».
(“Vita Nostra”, Anno IX – N. 11).

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