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Identificare per raccogliere o respingere e basta?

Di Paul Ndigi
Ad uno sguardo attento e rigoroso, risulta chiaramente che non ci sono città dove non siano giunte persone provenienti da diverse parti del mondo.
I mutamenti socio-culturali con le loro conseguenze costringono persone di varie culture a esodare e ad entrare in relazione con gli altri. Tra i valori che contraddistinguono la cultura classica e il cristianesimo troviamo l’ospitalità e l’aiuto allo straniero. Non a caso Platone, nel V libro delle Leggi diceva: «Il supplice è il più sacro dei forestieri, poiché più degli altri è in cerca di protezione».
Il mendicante dell’accoglienza è un bisognoso, non sempre una minaccia da eliminare o come qualcosa di irrilevante nei cui confronti si assume una certa indifferenza. Purtroppo, c’è un clima di spavento verso l’altro e lo si vede nell’atteggiamento del respingimento che, però, non appartiene alla natura dell’uomo, quella dell’animale sociale cioè chiamato a vivere con gli altri. L’uomo, non essendo una monade, ha bisogno di relazionarsi con gli altri per trovare la sua vera identità. Di conseguenza, l’ospitalità è un elemento imprescindibile di ogni cultura, un appuntamento del dare e del ricevere. Le modalità possono cambiare ma il fatto sussiste. A volte però, sembra che l’uomo agisca più con passioni irrinunciabili, anziché con la recta ratio. Si allontana facilmente da tutto ciò che non riesce ad identificare.
Solo che identificare chi sia l’altro effettivamente non è compito di tutti. In quanto cittadini di una Nazione, siamo tutti identificabili. Lo Stato ha dei meccanismi per poter identificare i residenti del suo territorio. Alla nascita, per esempio, c’è un certificato dove compaiono i nostri dati: nome e cognome, il genere, il giorno e il luogo di nascita, i nostri genitori. Da qui, si apre la prima pagina del racconto della nostra biografia.
Per Achille Mbembe (eminente filosofo camerunense), di identità ne dobbiamo parlare con certezza solo alla fine della vita di ogni individuo. Così facendo, si possono raccogliere le prove che abbiamo lasciato. Detto ciò, l’identità cessa di essere un attributo, una proprietà ma un riassunto della nostra esistenza. Quando emetteremo l’ultimo respiro, gli altri potranno dire chi siamo stati realmente; se lasciamo tracce considerevoli, gli altri se ne ricorderanno. In alcune tradizioni africane per esempio, l’antenato è sempre ricordato sia per il nome che per le opere. Solo che il nome non basta perché gli altri sappiano chi siamo in realtà. Con la carta d’identità, il passaporto, abbiamo i dati personali che confermano la nostra nazionalità, e l’eventuale professione. Il certificato del decesso conferma la fine la nostra esistenza. La terra non ci appartiene, ci accoglie in modo transitorio prima di riconsegnarle i nostri resti mortali. Pertanto, ogni vivente è frutto dell’accoglienza, quindi dell’attesa. Solo che l’accoglienza è diventata selettiva e, di conseguenza, divide persone, famiglie e persino le nazioni. Al di là delle differenze, nessuno si auto-genera, la vita è un dono. Aprirsi al mondo non è dunque superfluo: è una rinascita. Non c’è identità che quella che si diffonde, e la diffusione è dinamica non una chiusura in sé stessi, ma consiste nella relazione e questa presuppone l’incontro con gli altri.
Purtroppo in diversi luoghi, vi sono persone discriminate per vari motivi e che la società stessa non riesce ad accogliere. Esse rimangono prive di identità e da qui l’espressione “sans papiers”. L’accoglienza con benevolenza è sinonimo di un parto: ridona la vita a colui che l’aveva quasi perduta. L’accoglienza è una questione di umanità, non di calcolo e la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37) è un esempio inaudito.
Questo racconto c’invita a celebrare l’incontro con il volto sofferente, indifeso. Ogni uomo è assetato d’amore e l’avvenire dell’umanità dipende da questo amore, che non può rimanere incatenato, ma va trasmesso e perciò si tratta di costruire dei ponti per far sì che il grido dell’altro passi da chi lo vive a chi l’ascolta. L’ascolto è fondamentale nella procedura dell’accoglienza, ma rimane sterile se non genera la vita. Il realismo s’impone. Ora cosa deve fare un tale che si sente in pericolo in un determinato luogo? Arrendersi oppure cercare rifugio altrove? È lecito salvare una vita o sopprimerla?
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