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Il muro di cinta

Di Pietro Battista

Don Giovanni Merlini aveva una abilità particolare per le costruzioni. Nel 1831 vide la necessità di costruire il muro di cinta del Monastero. Pensò di inglobare anche i ruderi dell’Anfiteatro Romano. L’opera si presentava grandiosa e richiedeva molte risorse per la realizzazione. Iniziati i lavori, in poco tempo furono spesi 200 scudi; una somma considerevole, se si pensa alla precaria condizione economica della Casa di Missione.
Per risparmiare, don Giovanni addestrò i fratelli coadiutori nell’arte muraria. Lui stesso si rimboccava le maniche e lavorava con determinazione. In questo modo la comunità sosteneva solamente le spese del materiale. Mentre il muro stava crescendo, arrivò da Roma l’ingiunzione di sospendere i lavori. La ragione era data dalla presenza dei ruderi romani. Quel muro avrebbe impedito il libero ingresso ai forestieri.
Il 15 ottobre dello stesso anno (1831) il Papa Gregorio XVI volle fare una passeggiata a piedi da Castel Gandolfo ad Albano. Si fermò per visitare il Monastero di San Paolo. La comunità lo accolse con entusiasmo e venerazione. Terminata la visita della casa, il Papa chiese di fare un giro nell’orto. Giunto
nella zona dei ruderi romani e vedendo i lavori del muro in costruzione disse: «Ah fate bene (a chiudere) perché vi sono molti nascondigli pericolosi». Vedendo poi un passaggio che dava sulla strada disse: «Qui è necessario rimettere la porta come prima». Proseguendo il giro per l’orto e, vedendo affiorare tante zucche spagnole, il Papa chiese: «e di queste cosa ne fanno?». Rispose don Biagio Valentini: «Minestre per l’inverno, Santità». Il Papa si fece una grande risata. Poi aggiunse: «E sono buone?». Raggiungendo nuovamente il fabbricato chiese: «È tutto loro?». Don Biagio rispose: «No, beatissimo Padre, questa parte si ritiene dall’Abate di S. Alessio, Padre Marco». E il Papa: «Che se ne fa?». Il dialogo si fermò a questo interrogativo. Dopo essersi rallegrato di vedere una bella comunità, il Papa diede la benedizione e invitò i missionari a continuare l’azione di bene. Uscito dal portone, trovò radunata tanta gente che cominciò a gridare: «Viva il Papa!». Ripresa la strada di Castel Gandolfo, tornò a piedi, accompagnato per un buon tratto, dai Missionari.
Forte della parola del Papa, Don Giovanni Merlini riprese la costruzione del muro bruscamente interrotta. Dopo alcuni giorni di frenetico lavoro, salì al Monastero il Governatore di Albano, il Signor Dondini che intimò nuovamente la sospensione immediata dei lavori, per ordine del Cardinale Camerlengo.
Don Giovanni cercò di spiegare la ragione dei lavori. Il Governatore si rese conto di quelle ragioni, ma non aveva alcuna autorità per annullare la disposizione giunta dall’alto. Don Giovanni, allora, si presentò a Roma dal cardinale Camerlengo per ascoltare direttamente le ragioni dell’ordine di sospensione. Il Cardinale rispose che erano precisamente due: alcuni accusano i missionari di costruire il muro usando le pietre dell’anfiteatro; il muro, poi, avrebbe impedito il libero accesso ai ruderi romani. Don Giovanni, come risposta, lasciò un promemoria nel quale elencò i benefici che quel muro avrebbe arrecato non solo alla Casa di Missione ma anche all’anfiteatro.
Descrisse gli inconvenienti che si verificavano e aggiunse che per i lavori vi era l’approvazione dei cardinali Falsacappa e Barberini, ma soprattutto vi era il desiderio dello stesso Pontefice Gregorio XVI che aveva incoraggiata personalmente la costruzione. Il 28 giugno 1834, fu ritirato l’ordine di sospensione. Don Giovanni, con i suoi operai improvvisati, riprese i lavori senza badare alla stanchezza.
Dopo quattro giorni di frenetico lavoro il muro fu completato. Ancora oggi quel muro sta a testimoniare la tenacia e l’abilità di don Giovanni nell’arte muraria e l’incontestabile definizione della proprietà dell’antico Monastero fondato dal cardinale Giacomo Savelli.

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