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Il Sacrificio Eucaristico

Di Giulio Martelli
1. Il significato di sacrificio
La parola “sacrificio” è probabilmente una tra le più insidiose del vocabolario cristiano.
Da un lato, è stata gravata dalla storia di connotazioni doloriste, addirittura masochiste, che, nelle nostre lingue moderne, è divenuta quasi sinonimo di sofferenza espiatrice, dando così a molti cristiani la sensazione di avere a che fare con un Dio che impedisce di vivere. Questo ha lasciato, ovviamente, delle tracce nella mente e nel cuore di non pochi cristiani, a volte dei veri tiranni che spiegano, in parte, i loro attuali conflitti, interiori od esteriori, con Dio.
Dall’altro lato, questo linguaggio fa riferimento ai sacrifici rituali offerti agli dèi, o a Dio, in quasi tutte le religioni. Ora, nella nostra cultura, queste pratiche sono sospettate di essere favorite o guidate dalla logica del do-ut-des che evidentemente le squalifica. È un fatto, questo, così notevole che nei catechismi di inizio secolo la salvezza veniva presentata, quasi esclusivamente, secondo il sistema della “sofferenza espiatrice” interpretata come sacrificio, per soddisfare la giustizia di Dio. In questa prospettiva, la Messa viene espressa essenzialmente come l’attualizzazione del sacrificio “espiatorio” con cui Dio viene “placato”, e quindi come mezzo di applicazione dei meriti di Cristo ai vivi e ai defunti.
Mentre si insiste sul valore meritorio ed espiatorio della morte di Gesù e del sacrificio della Messa, si tende a valorizzare un modello di vita cristiana in cui tutti i “sacrifici”, come sofferenza offerta in unione a quella di Gesù, per amore di Dio, occupano un posto centrale. In generale, non ci si dimentica certamente di sottolineare che il loro valore sta nell’amore e non nella sofferenza in quanto tale. Tuttavia, resta il fatto che l’ideale cristiano così proposto ha una innegabile connotazione dolorista.
2. Un nuovo modello
Per quanto critici si possa essere, circa la nozione di sacrificio nel cristianesimo, non si può tuttavia rigettarla. Due sono i motivi più forti: uno rituale e l’altro biblico.
Un motivo rituale. Per quanto originale sia, la fede cristiana non può essere vissuta senza espressioni religiose e sacre.
In ogni caso, fin dall’origine della Chiesa, essa si è espressa in determinati riti. Tra questi, il fatto di mangiare e bere quello che, nella fede, viene presentato come Corpo e Sangue di Cristo mette in movimento dinamismi arcaici di tipo sacrificale, a livello psichico e a livello sociale.
Un motivo biblico. Nel Nuovo Testamento troviamo le parole “sacrificio”, “offerta”, “sacerdozio”, per esprimere la portata salvifica della morte di Gesù. C’è però qualcosa in più: l’insieme del Nuovo Testamento presenta la vita, la morte e la resurrezione di Gesù come «compimento delle Scritture» (cfr. 1Cor 15,3-5).
Lungo la lettera agli Ebrei, il sacrificio di Cristo appare assolutamente singolare. È un sacrificio “esistenziale”, che equivale a “vivere per” e “morire per”, e non un sacrificio rituale.
Il sommo sacerdote dell’Antico Testamento veniva consacrato con riti che, secondo un movimento “ascendente”, lo sradicavano dalla sua totale vicinanza al popolo e lo rendevano, così, atto a esercitare il suo ufficio di intermediario fra Dio ed il popolo.
Il Cristo, invece, è stato consacrato sommo sacerdote secondo un movimento inverso, “discendente”: egli riceve la consacrazione sacerdotale attraverso la sua fraternità con gli uomini (Eb 2,17-18), vissuta fino alle grida e alle lacrime che la morte strappa ad ogni uomo (Eb 5,7).
Questo sacrificio esistenziale del Figlio, liberamente acconsentito, abolisce, portandolo a compimento, tutto il sistema religioso giudaico. Il Santo dei Santi è ormai vuoto, come sottolineano i Vangeli parlando del velo del tempio che si squarcia da cima a fondo, al momento della morte di Gesù (Mc 15, 38). L’accesso a Dio è ormai aperto a tutti, senza dover passare attraverso il sistema del tempio.
I cristiani non hanno altro tempio, altro sacerdote, altro sacrificio che Cristo morto e risorto: è la loro “unica liturgia possibile”! Abbiamo dunque a che fare con un vero cambiamento di senso della nozione di sacrificio e di sacerdozio. Che ne è allora del sacrificio dei credenti?
3. Il sacrificio dei cristiani
Nella misura in cui, mediante la fede e il battesimo, i cristiani divengono “partecipi di Cristo” (Eb 3,14), la loro vita personale diviene il luogo di esercizio del sacerdozio unico e non trasmissibile di Cristo (Eb 7,24-25). Essi costituiscono, insieme, un “popolo sacerdotale” deputato a fare della propria vita un “sacrificio spirituale” (1Ef 2,4-10).
Il Nuovo Testamento non qualifica mai sacerdotalmente i ministri che presiedono le attività liturgiche dei cristiani; non indica mai l’eucarestia come “sacrificio (sacramentale) del Cristo”, ma applica il vocabolario “sacerdotale” e “sacrificale” al tempo stesso al Cristo e alla vita quotidiana dei cristiani che sono a Lui uniti, mediante la fede (il sacrificio di lode) e la carità dello spirito, esercitata nella condivisione con i fratelli che sono nel bisogno.
In Paolo, il ricavato della colletta fatta a favore dei fratelli di Gerusalemme che soffrono la fame è un “nuovo olocausto”, “piacevole profumo”, “sacrificio gradito che piace a Dio” (Fil 4,18); è una vera liturgia che suscita “molti ringraziamenti a Dio” (2Cor 9,12). La separazione del profano e del sacro si trova, così, abolita in Cristo: «offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è Cristo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1).
Con il dono dello Spirito, i credenti, quali membra vive del Cristo, hanno il compito di fare di tutta la loro vita “profana”, un “sacrificio eucaristico”.
È proprio questa liturgia del prossimo a costituire il sacrificio spirituale, che i cristiani, per vocazione, offrono a Dio nel quotidiano.
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