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Il tarantismo o morso della taranta

Di Giorgio Di Lecce

Morso di Taranta da cui Tarantismo o malattia della danza, così è definito da studiosi medici e uomini di Chiesa, quel fenomeno storico religioso che caratterizzò l’Italia Meridionale ed in particolare la Puglia fin dal Medioevo, episodi di morso velenoso curato con la musica e la danza, come attesta il primo documento del 1362: Sertum papale de venenis, di Guglielmo di Marra da Padova (Cfr. G. Mina, Il morso della differenza. Il dibattito sul tarantismo dal XIV al XVI secolo, Nardò 2001). A sua volta il famigerato ragno-taranta, o tarantola, deriva il proprio nome dalla città di Taranto, nella cui regione, in diversi periodi, si verificarono episodi di intossicazioni da morsi di ragni velenosi che per gli aracnologi erano dovuti al Latrodectus o Vedova Nera ma dalla gente venivano attribuiti alla più grande e vistosa Tarant-ola (Lycosa Tarentula, cfr. J.F.K. Hecker Danzimania. Malattia popolare nel Medioevo, Nardò 2020). Le musiche, i canti e le danze impiegate per la cura di quanti venivano, nel vero o nel simbolico, morsi dalle Tarantole vennero chiamati dalla fine del XVI secolo in poi Tarante e Tarantelle (Cfr. G. Di Lecce, Le tarantelle – Pizziche, Galatina 2001). Il fenomeno del Tarantismo fu affrontato pressoché in maniera definitiva successivamente da Ernesto De Martino, durante la sua spedizione nel Salento nel giugno del 1959 per constatare l’intero fenomeno e analizzare l’antichissimo rito di guarigione dei tarantati e del loro pellegrinaggio a Galatina (nei pressi di Lecce) nella Cappella di San Paolo (protettore e cura contro il morso di animali velenosi), luogo di culto dove avveniva il rito coreutico musicale delle donne e uomini tarantati, di cui si è avuta l’ultima testimonianza il 29 giugno 1993, con le danze finali di un’anziana donna tarantata che ha eseguito il rito danzato per 26 anni (Cfr. G. Di Lecce, La danza della piccola taranta, Roma 1994). Questa danza osservata e descritta sin dal Medioevo è scandita da ritmi e melodie che vanno dal “lento” al “vivace”. Gli esempi riportati dalla letteratura popolare descrivono infinite forme di danza di tarantati con diversi oggetti e accessori (spade, fazzoletti, nastri, ventagli, conchiglie ecc.). Ernesto De Martino e la sua équipe, con l’etnomusicologo Diego Carpitella, a seguito della loro spedizione nel Salento, inserirono questa danza nel contesto di un vasto fenomeno culturale che riconosceva un organico sistema mitico-rituale, di cui la pizzica-tarantella costituiva il momento risolutivo (E. De Martino, La terra del rimorso, Milano 1961). Essa ha continuato ad essere praticata in casa o in cappella, sempre meno, fino alla recente scomparsa, ultimo caso quello sopra citato del 29 giugno 1993.
Secondo il naturalista tedesco Wojciech Katner, che partecipò alla spedizione di De Martino, a partire dal XVII secolo, queste epidemie coreutiche si manifestarono sotto forma di feste popolari, in cui musicisti e partecipanti provenivano da differenti villaggi e di cui erano principali protagoniste le donne. La popolazione pugliese, dal carattere molto tradizionalista, obbligò la Chiesa ad adattare il Cristianesimo a quelle tradizioni popolari, cioè a far coincidere il suo calendario cristiano con i giorni delle feste tradizionali locali, a costruire le sue chiese vicino ai templi e a sostituire le antiche divinità con i suoi Santi. Ma le manifestazioni con danze sfrenate rimasero inaccettabili per la Chiesa e furono proibite. Malgrado ciò, questi riti, profondamente radicati nella popolazione, continuarono a vivere, ad essere praticati al di fuori delle funzioni religiose ufficiali, fino a divenire oggi delle danze popolari durante le feste locali.
Nel corso di queste manifestazioni popolari, le danzatrici e i danzatori più sfrenati erano considerati come attarantati: «Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati) ed esser caduti in quell’infermità, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le ginocchia, spesso al suono cantano e ballano, agitano le labbra, stridono co’ denti e fanno azioni da matti. Niente chiedono, ma il compagno guidone notificando per tutto ch’egli è attarantato, chiede e raccoglie elemosina per loro: oh ingegno, oh arte inaudita per li passati secoli!» (R. Frianoro, Il Vagabondo, Viterbo, 1621).
Questa danza, permane oggi nella memoria della gente e la musica risanatrice viene ora riproposta in concerti e spettacoli, assieme alle danze.

LE TRE TARANTE
Oggi sopravvivono tre forme di danze degli attarantati di un tempo:
1) La Pizzica-Taranta: danza curativa individuale (e collettiva) che prende origine dall’antichissimo rito di guarigione dei tarantati e dal loro pellegrinaggio a Galatina (nei pressi di Lecce), di cui si è avuta l’ultima testimonianza, il 29 giugno 1993, con le danze finali di un’anziana donna tarantata che ha eseguito il rito danzato per ventisei anni (Cfr. G. Di Lecce, La danza della piccola taranta, op. cit.).
2) La Pizzica de core (della gioia) si danza, oggi, soprattutto in occasione di feste popolari, di matrimoni, battesimi, feste familiari, ed è fondamentalmente una danza saltata di coppia mista a ritmo veloce che viene ballata da tutti, grandi e piccoli, diventando espressione di sentimenti di gioia, amore (corteggiamento), entusiasmo, passione. Un tempo si danzava, in famiglia, in gruppo a file di coppie frontali o a quadriglia. Il giudice Luigi De Simone, nel 1876, distingueva, nelle sue descrizioni, la Taranta, la Pizzica-pizzica e la Tarantella. Se la prima è indubbiamente la danza di guarigione, di cui si conoscevano dodici diversi motivi (muedi), tra i quali la Monachella, la Filanda, il Ballo a botta, la seconda deriverebbe da essa, ossia dalla Tanza de quiddhu ci la Taranta pizzica (Danza di colui che è morsicato dalla Tarantola), che con qualche regola coreografica diventava la Pizzica-pizzica, danza salentina. La Tarantella, invece, che prenderebbe come pretesto la Tarantola, sarebbe un altro ballo, con accompagnamento in minore e in tempo 6/8, a sua volta sistemato e danzato anche in altre regioni del Sud Italia (Cfr. L. G. De Simone, La vita nella terra d’Otranto, ediz. Lecce 1996).
3) La Pizzica-scherma (danza dei coltelli) si danza, per tradizione centenaria, la notte tra il 15 e il 16 agosto, durante la festa di San Rocco a Torrepaduli, presso Ruffano (Lecce). È una danza rituale di coppia, a tema antagonista, che in passato prevedeva la presenza di coltelli nelle mani dei danzatori e radunava i migliori suonatori di tamburelli attorno ad interminabili ronde di danze e sfide, che si protraevano per tutta la notte. Antonio Gramsci, nelle sue Lettere dal carcere, in data 11 aprile 1927, ne dà una descrizione, dalla caserma dei Carabinieri di Castellammare: «pugliesi, calabresi e siciliani svolgono un’accademia di scherma del coltello, secondo le regole dei quattro Stati della malavita (Siciliano, Calabrese, Pugliese e Napoletano)». Oggi i coltelli sono sostituiti dalle dita indice e medio della mano, che colpiscono (come armi affilate) il petto dell’avversario, il tutto accompagnato da movimenti danzati agili ed eleganti. È prevalentemente danzata da uomini e si accompagna con tamburelli e armonica a bocca a ritmo di tarantella-pizzica; le azioni, i gesti, gli attacchi e le parate derivano da antichi codici d’onore e di rispetto che regolavano la gerarchia e le dispute nel mondo degli zingari, commercianti di cavalli.
Ad accompagnare queste danze, il “tamburello” (tamburo a cornice con una sola pelle, solitamente di capra), strumento popolare, artigianale e alla portata di contadini e pastori, era presente nel vivere quotidiano delle famiglie e delle comunità che abitavano le terre di Puglia e scandiva i ritmi del calendario agricolo, essendo suonato in occasione delle feste della raccolta, della vendemmia e altre, e quelli della vita di tutti, accompagnando le ricorrenze quali, battesimi, matrimoni ed altre feste familiari.
Con la mano che batte sul tamburello viene scandito quel ritmo denominato pizzica o taranta, un ritmo particolare, di tipo binario, che include le terzine segnate dai piattini in rame: questo battere ritmico dall’andamento vivace e ripetitivo, è stato paragonato da qualcuno al ritmo cardiaco con un gesto che batte il tempo sul petto all’altezza del cuore.
Questo è anche un buon metodo per apprendere la tecnica di terzinare sulla pelle del tamburello. È proprio questo ritmo, questo battere ripetitivo ed energico che, se non induce, sicuramente, conduce e guida nel movimento ritmico e saltellato il danzatore; il passo saltato o cadenzato ripetuto in cerchi concentrici, per lunghe ore, costituisce la base motoria del ciclo coreutico della danza dei tarantati, almeno in molti dei casi da me osservati anche con l’aiuto dei video-documentari o delle immagini fotografiche.

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