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In principio era l’arte

di Francesco Albertini

In Principio era l’arte, raccolta di scritti del card. Thomáš Špidlík, è una grande occasione per scoprire come «le cose visibili sono approfondite attraverso quelle invisibili» (Massimo il Confessore); è una grande occasione per ri-scoprire la teologia stessa. In che senso? L’uomo antico, nella sua vita, percepiva accanto a sé una presenza trascendente, qualcosa che lo superava. Questa “presenza” la percepiva alla luce della sua piccolezza e più egli si accostava a tale presenza, più ne avvertiva la sua infinita grandezza, diventando fonte di mistero; qualcosa di immensamente grande in relazione a qualcosa di così piccolo, fragile e temporaneo. Il senso del sacro, in relazione a questa immensità, diventava un tutt’uno con la paura, dalla quale sgorgava il senso misterico dell’esistenza.
Poi fu l’avvento della scienza e la natura, l’immensamente grande, riflesso mirabile del mistero, perdeva sempre di più questa connotazione. La natura è sempre più trasparente alla ragione umana che la può codificare attraverso un insieme di principi immutabili. Passa il tempo e anche il comportamento umano, la morale, diventano, in relazione alla scienza, un insieme di leggi naturali affinché possano essere riconosciute universalmente come tali.
Dunque, nel corso del tempo, non solo il mondo esteriore si trasforma in un insieme di postulati e di leggi ma anche quello interiore, quello dell’uomo. Il mondo è sempre più dominato dalla tecnica, sempre più incline a “cosificare” l’esistenza, applicando con la denominazione “scientifico” tutto il comprensibile, fino a catalogare anche la teologia stessa con questa “etichetta”. Cosa significa questo?
Certamente che non si nega l’origine della vita della fede ma, alla dimensione misterica, si è preferito concentrarsi più sull’elemento umano, il quale è chiaramente più comprensibile e facilmente oggetto di uno studio sistematico e dunque scientifico.
In altre parole o con una semplice frase: si è ridotta la realtà alla comprensibilità, a tutto ciò che può inscriversi all’interno della logica umana. Dove è andato a finire lo stupore? Quando è stata l’ultima volta che ti sei fermato davanti a qualcosa che ti ha “rapito”?
La bellezza fa proprio questo: interrompe la realtà, le certezze incrollabili e anche l’onnipotenza della tecnica. Desideriamo conoscere, capire, rendere scientifica l’esistenza perché non si resiste all’atavica tentazione di voler possedere il mondo, quando in realtà ci è stato già donato. Il mistero del mondo − dice Špidlík − non si può conoscere violandolo ma sbirciando dentro, attraverso i suoi simboli: è in questo modo che si riesce ad intuire l’intreccio sapiente del creato, l’inesauribile connessione delle cose esistenti.
Abbiamo bisogno di bellezza, ho nostalgia di bellezza! Ma di quale bellezza stiamo parlando? Chiaramente non sono tutte uguali: dopo il peccato di origine, si è originata una separazione con la quale ancora oggi facciamo i conti e cioè quella tra il vero e il bello. Da quando si è giunti a questo “divorzio” l’attrazione estetica è diventata fonte di idolatria. Un conto è la cosmetica, un conto è la bellezza, quella vera, quella che trasfigura la realtà, come toccata dal dito della mano di Dio; quella che sta al servizio e mostra la vita stessa come un’arte da realizzare; quella che sa rivestire l’umano con l’incorruttibilità dell’eterno. Diventa più chiaro come la teologia e l’arte fossero così legate, forse solo così si intuisce come, tra le “pieghe” del creato, possa dischiudersi l’immensità del mistero. Il mondo non è muto, non è paralizzato, i simboli sono mani alzate verso Dio. Tutto indica il Creatore e, nella sua creazione, la sua parola chiede all’uomo la sua risposta.

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