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La teoria di Kandinsky 2a parte

di Francesco Albertini

Rimaniamo nella dimensione cromatica per continuare la nostra “esplorazione” nella teoria kandinskyana. Se un tocco di rosso, in una composizione drammatica, non può che accentuarne lo stesso tipo di carattere, è totalmente diverso rispetto ad un altro tipo di soggetto come un albero, ad esempio. Se pur la cromia porpurea dovesse spiccare nell’insieme pittorico, non provocherebbe la stessa reazione perché è il soggetto a fare la differenza. Il rosso, nel caso dell’albero, si unirebbe al significato psichico dell’autunno: «Il colore si unisce completamente all’oggetto e forma un unico elemento» (W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, 80). Un altro caso è quello del “cavallo rosso”, il suono stesso delle parole, dice l’autore del saggio, ci porta di per sé ad un’altra dimensione e per questo servirà una rappresentazione ambientale pensata ad hoc per lui. Un contesto particolarmente realistico con un cavallo di questa cromia creerebbe una dissonanza così forte da non permettere all’osservatore quel senso di “unità” così caro a Kandinsky dal quale dipende tutta l’armonia dell’opera. Tale armonia è qualcosa di più profondo della semplice somma delle parti esteriori della composizione, «gli elementi che costruiscono il quadro non vanno cercati nell’esteriorità, ma solo nella necessità interiore» (cit., 81), nella superficie interiore. Lo spettatore è fin troppo abituato a ricercare un “senso” a partire dall’esteriorità e questo per Kandinsky è il sintomo più evidente di un’epoca votata al materialismo. Lo spettatore si pone davanti al quadro cercando di ricavarne, di “consumarne” tutto il significato, tutto il suo “prodotto”. Egli non cerca la vita interiore, non permette che l’opera possa agire su di lui. Se io parlo con una persona non mi preoccuperò tanto della composizione delle lettere che usa nelle sue parole, del modo in cui sta respirando, queste sono tutte necessità secondarie. Mi preoccuperò piuttosto dell’essenziale della conversazione e cioè della trasmissione di idee e sentimenti. Lo stesso tipo di relazione bisognerebbe instaurare con l’opera d’arte! Non si potrebbero usare espressioni migliori per esprimere ciò che si è detto fino ad ora se non attraverso le parole di Wassily: «Col tempo impareremo ad esprimerci con mezzi puramente artistici, e allora non dovremo più chiedere in prestito quelle forme esteriori che oggi servono ad attenuare o ad arricchire il valore interno della forma e del colore» (cit., 81). La bellezza di alcuni passaggi di questo scritto, non possono non richiamare una lettura anche “esistenziale”. Forse è anche un buon segno perché, come dice l’autore, la “sfida” dell’opera astratta è proprio quella di poter interagire con l’interiorità dello spettatore (sempre che si lasci una possibilità, un “permesso” a questo processo). Allora anche noi non dovremo più chiedere in prestito forme esteriori per poter essere l’opera che siamo, impareremo ad esprimerci come “mezzi puramente artistici”, essendo liberamente ciò che siamo, liberi di non essere compresi.

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