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Lettere da Babbo Natale

Di Federico Maria Rossi

«I miei fattorini mi riferiscono che in giro la gente sta definendo quest’anno “cupo”. Credo che s’intenda dire infelice: e così temo infatti che sia in moltissimi di quei luoghi in cui mi dilettavo particolarmente di andare» (p. 189). Così scrive Babbo Natale a Prisicilla Tolkien nel 1943, ultimo anno in cui la giovane «appese la calza al camino» per ricevere i doni secondo la tradizione anglosassone.
Va bene, non era proprio Babbo Natale: per più di vent’anni, dal 1920 al 1943, Tolkien rispose alle letterine che ogni anno i suoi figli mandavano a «Papà Nicola Natale», inventando un mondo vivo e vivace, popolato di regali, certo, ma anche di Orsi Bianchi, di goblin, di Uomini e Bambini di Neve. Un mondo di parole e di immagini, di disegni dai mille colori: dal bianco della banchina polare all’arcobaleno delle Luci Boreali. Un mondo in cui il povero Babbo Natale ha una grafia tremolante − in fondo è vecchio di novecentoventisette anni e fa proprio freddo al Polo Nord! − e in cui l’Orso Polare annota i suoi commenti a margine, con tratti rossi e sgrammaticati. Un mondo in cui anche i francobolli sono speciali e alcune lettere vengono consegnate «via slitta» (p. 112).
È un mondo che non è chiuso a ciò che accade più a sud del Circolo Polare Artico: nel 1931, nel pieno della Grande Depressione, Babbo Natale scrive ai piccoli Tolkien: «Abbiamo entrambi gradito, il vecchio Orso Bianco e io, le tantissime belle letterine che ci avete spedito […].
Se credete che non le abbiamo lette, vi sbagliate; ma se trovate che non molte delle cose che avevate domandato vi sono arrivate, e magari ancora meno di altre volte, ricordate che questo Natale c’è nel mondo un numero enorme di persone che sono terribilmente povere e soffrono la fame» (p. 68).
Il 1931 è stato un anno povero di regali, dunque, ma ricco di avventure − vissute al Polo Nord e lette in una casa di Oxford.
Un anno in cui i Bimbi-neve hanno fatto scoppiare tutta la riserva di petardi di Babbo Natale, in cui Orso Bianco si è bruciacchiato la pelliccia e ha imparato a disegnare, in cui Babbo Natale si è ritrovato senza inchiostro verde e ha organizzato «alcune collette di cibo e di vestiti, e pure di giocattoli, per quei bambini ai quali i padri, le madri e gli amici non possono regalare nulla, a volte neppure assicurare la cena» (p. 71). Un anno in cui un padre, serio professore di linguistica a Oxford, non dimentica che il regalo più grande che può fare ai propri figli è quello di uno sguardo sincero, aperto al mondo, ma non arreso né disilluso; il regalo più grande è quello della speranza cristiana, che sa leggere oltre il dolore e la fatica di ogni giorno per trovare in tutto l’impronta del Creatore.
Tolkien lo fa attraverso la fantasia e il racconto − che è la sua vocazione. E oggi ancora tanti papà e tante mamme lo fanno cantando in famiglia, disegnando insieme ai figli, scoprendo sentieri segreti nei boschi, piegando carta per fare origami, pregando il rosario, portando i bambini a messa,sul divano davanti a un buon film, cucinando una pizza. Ancora oggi tanti papà e tante mamme scelgono un sorriso che costa fatica per non far passare la rassegnazione, il fatalismo o la rabbia, per insegnare ai propri figli che gli occhi di un cristiano sono fatti per guardare in alto e che il Signore non smette di aprire le Sue strade, anche in mezzo a guerre, crisi economiche e pandemie globali.
In questi tempi strani e difficili, questo è il regalo più grande che un cristiano può fare ai suoi figli e al mondo: la speranza. Una speranza che si è incarnata, che è viva − e che regna alla destra del Padre (cfr. 1Tm 1,1). Come dice Babbo Natale a Priscilla, nella sua ultima lettera: «Ma sono contentissimo di sentire che tu non sei ancora del tutto infelice. Non esserlo! Io sono ancora vivo e vegeto, e tornerò presto, gioioso come sempre» (p. 189).

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