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L’urlo di Vincent

Di Nicola Antonio Perrone
«Non dimentichiamo che le piccole emozioni sono i grandi condottieri delle nostre vite e che a queste noi obbediamo senza saperlo». Così scrive Vincent Van Gogh in una lettera del 1889 indirizzata al fratello Theo, racchiudendo in queste parole tutta la sua esperienza artistica e spirituale.
Alla vigilia del centocinquantesimo anniversario della nascita, presso il Palazzo Bonaparte di Roma, è stata allestita una mostra con opere più o meno note, di grande valore per comprendere l’evoluzione dell’artista nella sua faticosa ricerca di un posto, in un mondo che sino all’ultimo l’ha rinchiuso tra le sbarre del manicomio e dell’indifferenza.
La mostra ha il merito di aver realizzato un percorso che accompagna il visitatore nel conoscere le varie fasi della vita del pittore, accostando ad esse la crescita artistica e il travagliato percorso di fede, e mostrando come vita, arte e spiritualità si siano influenzate a vicenda.
Le opere di Van Gogh infatti si comprendono solo tenendo conto del contesto biografico nel quale sono state realizzate e della fase spirituale che in quel momento segnava il suo animo tormentato. Ciò che ha sempre accompagnato la figura di Vincent è stata proprio la dimensione religiosa. Figlio di un pastore calvinista, divenne anch’esso predicatore presso le miniere belghe del Borinage. Le durissime condizioni dei minatori segnarono profondamente la sua arte, iniziando a riprodurre attraverso tratti scuri e definiti i tragici scenari di sfruttamento e povertà ai quali assisteva quotidianamente.
La cura per il prossimo e lo zelo apostolico però si esaurirono, e l’artista decise di dedicarsi esclusivamente alle sue tele, accompagnato e sostenuto dall’affetto del fratello Theo, l’unico che rimarrà costantemente con Vincent sino alla fine, sviluppando con esso una fitta corrispondenza epistolare, della quale molti passaggi sono riportati anche nel percorso espositivo sopracitato.
I due episodi che meglio rivelano l’interiorità di Van Gogh, sofferente e allo stesso tempo affamato di amore e di vita, sono il litigio con Gauguin e la tragica morte, avvenuta nel 1890.
L’amicizia con il pittore francese degenerò presto in dipendenza e sottomissione e, quando Gauguin, di spirito libero, abbandonò Vincent lasciando Arles, Van Gogh si mutilò un orecchio. Il dolore per la perdita di qualcuno che sembrava amarlo lo spinse ad autolesionarsi, e quanto questo gesto, seppur eccessivo, può farci riflettere. Scoprirci traditi ed ancora più soli, dopo esserci illusi di aver trovato casa presso qualcuno che sembrava volerci bene, può condurci ad una sofferenza più acuta anche di quella dovuta alla mutilazione, perché a venire meno è un pezzo di cuore, non di carne.
Infine, con un colpo di pistola sparatosi in un campo di grano, Van Gogh cessò di realizzare la tela della sua esistenza.
Agonizzante per due giorni ed assistito dall’immancabile Theo, mostrò ancora una volta un profondo attaccamento alla vita, sempre mosso dalla flebile speranza di trovare in qualcuno un luogo nel quale dimorare perché amato.
Il riconoscimento artistico che l’autore non ebbe in vita, è paradigma della sua continua ricerca di un riconoscimento affettivo, la cui mancanza solo l’arte ha potuto adeguatamente urlare.
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